Ecuador 10 - Dayuma o Moby Dick

Pubblicato da Giant Trees Foundation il 8 Luglio 2019
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Nella casa di legno

si cucina per terra su una rete elettrosaldata, poi si mangia assieme

Il capo del villaggio Waurani ci racconta del serpente verde arboricolo che lo ha morso e costretto in ospedale per 6 mesi. Passo la notte a pensare a domani, al grande ceibo di liane epifite, terra del cielo, felci, rane velenose, serpenti, formiche konga.

Al mattino, dopo una colazione a base di avena bollita, partiamo alla volta del nostro gigante. Prendo con calma la situazione, faccio fare alcune prove a Gio e Cira poi mi vesto. Giacca di pelle, camicia, polsini, guati di pelle fiore, rete antiapi, 2 paia di calzini. Si suda solo a stare fermi. Così bardato parto per la salita. Ho usato i guanti rarissime volte sugli alberi. Questa è una di quelle. Giovanni mi segue a ruota sulla corda che ho posizionato ieri. Arriviamo nel folto della chioma.

Gio installa una ulteriore corda per far salire Cira. Io un’altra per raggiungere la parte più alta. La mia non si riesce più a spostare da quanto è intrecciata tra le liane e i rami. Prima di scendere occorrerà rimetterla meglio o sarà impossibile toglierla. Riesco a lanciare la nuova corda 4 o 5 metri più in alto e salgo. Rimango appeso come un salame non avendo rami sotto i piedi. Con l’asta e alcuni moschettoni a fatica cerco di installare la fune altri 4-5 metri più in alto. Finalmente passa. Posso arrampicarmi ancora. Non manca molto alla cima. Cira può iniziare a salire portandosi dietro la cordella metrica per la misurazione. E’ la prima volta che sale così in alto. Praticamente un intero tiro di corda di 40 metri tutto nel vuoto. Sopra la foresta. E’ brava non molla. La sentiamo ansimare, la incitiamo e pian piano arriva nella postazione di Gio. Io mi sono sistemato meglio, ancora più in alto. Ora sono sotto gli ultimi rami. Possiamo misurarlo. Davide si sposta col drone per aiutarci a collimare l’apice più alto.

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52 metri e 63 cm

Sapevo che non sarebbe stato altissimo.

 Ma è comunque un albero favoloso, pieno di vita, con due specie di ficus strangolatori che avevano costruito due fittissime chiome all’interno del vecchio colosso che non si lasciava stritolare ma scappava dalla fitta rete di liane con i suoi lunghi rami, terra di cielo, orchiedee di mille specie, bromelie in fiore, epifite multicolore, muschi, liane, formiche, rane, ragni, serpenti, uccelli, api e vespe, in un insieme disordinato e perfetto nel suo estremo equilibrio. Ammiriamo, dal suo interno, questo spettacolo che domina la foresta amazzonica. E restiamo a lungo in silenzio.

Alla fine scendiamo, prima Cira, poi di nuovo assieme io e Giovanni, non prima di aver riposizionato la corda più lunga in maniera da facilitarne il recupero e aver svincolato altre due funi. Siamo a terra verso l’una del pomeriggio. Ci abbracciamo e facciamo ci facciamo i complimenti. Poi togliamo tutte le funi. Gli altri iniziano carichi di zaini il ritorno. Io mi fermo ancora un pò davanti al gigante.

"Ora è tutto finito, se ne sono andati tutti. Posso salutarti. Grande vecchio che mi hai accolto. Posso inchinarmi davanti a te, così grande, così immenso, così buono da lasciarmi “giocare” tra i tuoi rami più alti, da permettere l’accesso anche a inquilini inopportuni. Hanno scelto il tuo nome. Quello della prima donna che ha civilizzato i waurani: Dayuma"


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Eppure non mi suona.

Guardo la tua pelle striata, le grandi macchie chiare, quasi bianche, sul tuo dorso.

Mi ricorda qualcosa, la balena in Cile. La grande Moby Dick. La testa che sprofonda nel mare e la grande coda che si innalza nel cielo. Ancora una volta non è un animale per me, ma un albero. Moby Dick. Non una preda ma un dolce amante. Lo accarezzo. La pelle ruvida delle mie mani incontra la sua, altrettanto ruvida nella sua eterna vecchiaia. Nella cima, tolti i guati le sue spine mi avevano bucato le dita. Ora è solo un riconoscersi.

Mi inchino davanti al gigante che mi ha accolto. Davanti alla sua aspirazione di cielo, davanti al suo amore per la terra. Mi inchino davanti all’essere che meglio rappresenta l’eternità di Dio. Davanti al sacro Graal della mia perpetua ricerca, che a volte inspiegabilmente si compone davanti ai miei occhi, spesso offuscati di stupidità. E’ Dio che mi accoglie quando sono tra i rami dei giganti, che mi fa respirare brevemente la vita nella sua essenza, che mi inebria di un profumo non esprimibile a parole ma che sa di gioia. E’ Dio che mi regala il sapore che illumina i miei occhi e mi commuove fino alle lacrime. E’ l’eterno che mi ricorda la mia miseria e la nostra presunzione. Sua è la terra, suo il cielo. Suo il passaggio tra il fango e le stelle. L’immenso tronco che scalo. Che ognuno di noi è chiamato a scalare. In mille modi diversi. Questo è il mio. E mi inchino davanti all’immenso, all’eterno e alla sua misericordia per un piccolo, inutile uomo come me. Ignorante di tutto. Meschino e presuntuoso. Questo è il viaggio continuo. Alla ricerca dell’albero che scolpisce pian piano il mio cuore. Ora capisco cosa mi diceva lo sciamano: “troverai alla fine il tuo albero, il tuo cuore“ Non parlava di un albero, ma di mille e mille alberi, di una immensa foresta, composta da tutti gli alberi che ho arrampicato, che ho conosciuto, che di volta in volta mi hanno insegnato, con infinita pazienza, chi e cosa veramente sono. Il mio immenso tempio mi circonda in questa sera di metà aprile. Sono in ginocchio. Ancora, con lo sguardo pieno di gratitudine. Solo gli alberi salveranno il mondo, costruiranno per sempre nuova terra e nuove nuvole in cielo. Ma comunque solo gli alberi salveranno me.

Ciao grande Moby Dick. Uno dei tuoi amanti è ancora qua e non ti dimenticherà..

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