Una radice per te

Pubblicato da Giant Trees Foundation il 18 Giugno 2020
Articolo


di Luigi Delloste


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Vicino all’acqua tiepida, salmastra, quel pomeriggio senza sole, sbeffeggiata dalla risacca, c’era una piccola radice; pareva ordinata, lì, nel vano tentativo di allungare quanto dai suoi simili già avuto dalla terra per raggiungere il mare. Osare l’ignoto, come un pioniere che stolto e incurante dei consigli si spinge oltre ogni confine possibile, oltre ogni limite ragionevole nel pio e folle gesto di avere, avere ancora qualcosa. Ormai da anni il piccolo albero dal quale cresceva era in declino, consumato dalle fatiche di reggere così tanti sforzi per resistere a tanta paziente forza del mare, di quelle onde lisce e increspate che ogni giorno lo sferzavano senza alcuna delicatezza, volte a tornare e ritornare, per consumare, anche loro per avere. La corteccia che copriva clemente quel tronco era a tratti erosa, consumata, strappata dalla furia incontrollabile delle tempeste, e quand’anche nell’olio liscio della bonaccia così pure dalla salsedine che ghermiva ogni cosa giungesse a tiro. Tra quelle sagge pieghe si contavano un’infinità di minuscoli granelli, ognuno dedicato all’abbraccio dell’essere, consapevoli del proprio destino di perle incastonate su fili esitanti. Era come il tributo al decoro, al luccichio del sole in tanti piccoli istanti di luce nel gioco dell’illusione per gli occhi puntati. E viva gioia alcuna l’acqua li rifletteva in giochi vivaci e misteriosi sino a proiettarli ovunque, nella gaiezza di occhi accecati, così anche solo per un istante. La sua figura contorta e raccolta in un'unica chioma era l’emblema della resistenza per tutti gli abitanti del luogo, per tutti i viventi di quell’isola deserta. Bracci tesi e canuti, parevano arti di sapienti ballerini piroettanti nella danza gitana. Costruiti sapientemente in lustri ormai andati, vivi solo a ricordo di quel glorioso passato di crescita.

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Ogni tanto, in qualche anno, quel piccolo alberello fioriva, e nei pochi giorni che i petali dipingevano quella strana tavolozza, tutto intorno cantava a festa, era una gioia incontenibile, esplosa come un fuoco d’artificio nel volgere di poche ore, inaspettato così come era il suo sbocciare molte volte atteso invano. Nei colori affaccendati s’alzava un profumo inebriante, spesso rapito dal giungere disordinato della brezza brigante, che, con misto ardore anteponeva schiavi trasportati da terre lontane a quell’aroma così gentile, così raffinato, elegante, così lieve e pungente, la carezza di chi innamorato che si pone delicata nello guardo alle gote del suo desiderio. Poi, nel giro di pochi intensi momenti tutto scompariva, quei piccoli fiocchi di neve leggeri come petali fuggivano in ogni dove, carezzando il mondo lì, poco fuori da dove erano nati. Alcuni stremati crollavano nel misero spazio intorno, altri, forse più temerari cavalcavano la fortuna dell’alito sino a scomparire all’orizzonte in terre lontane, chissà quanto lontane. Ma più nulla si sapeva di loro, nessuno di loro era mai tornato per raccontare il vissuto di quegli avventurosi viaggi, tant’è che se ne parlava vociferando chissà cosa, ma senza aver alcun esempio, traccia, conoscenza di come era potuto veramente andare a finire.

Poi, le lame bagnate riportavano a riva i primi temerari, che tristi si arenavano ai piedi del genitore. Tutto ciò si svolgeva nell’incanto di qualche giorno accompagnato da una luna piena e vigorosa posta ad illuminare il gioco notturno, il concerto di quei movimenti leggiadri a volte stizzosi, bisbetici e saltellanti. Passava altro tempo e l’acqua lentamente si riprendeva la spiaggia cristallina, ultimo baluardo a difesa dei popoli radicati nel primo entroterra. Alcuni, nati per caso, non comprendevano quale fato fosse stata la costrizione a mettere radici in un luogo così in prima linea, altri morivano solo dopo pochi anni di sofferenze indicibili nel vano tentativo di possedere quella piccola parte di colonia. Altri ancora crescevano rigogliosi, forti, in quel poco tempo dimostravano al mondo la loro vincente attitudine alla crescita, onore dell’eredità ricevuta, frutto della propria genia. Ma giunti ad una certa dimensione venivano sacrificati all’altare degli elementi, urla di giganti, torrenti, maree agitate in tempeste che facevano del giorno la notte più cupa. Schiocchi di schiuma salata, accecante cortina che copriva e spingeva, lavava e salava. Troppo sciocchi, forse, per capacitarsi che la sopravvivenza non era dei potenti, dei grandi, venivano strappati a viva forza e portati anche loro lontano, e se mai riuscivano a ritornare per chissà quale caso, erano solo i loro resti, le spoglie di tanto vigore che ben poco potevano essere riconosciute. I resti delle membra delle statue degli antichi guerrieri.

Lui no, era lì a dispetto delle regole, del caso scritto sulle tavole dei comandamenti, era lì a osservare e sentire la lenta risacca del sempre dei giorni dopo giorni, lui era lì…

Mi chiesi tante volte come ciò fosse possibile, perché tanta inspiegabile forza, tenacia, virtù e sapienza racchiuse in un così esile prodotto della natura, di quella natura che si erge forte e trascinante, che domina. Boschi e foreste in luoghi inaccessibili, giganti palpitanti di vita a guardia di radure distese a perdita d’occhio, e poi quel verde smeraldo, che si tinge di continuo in acquerelli pieni di sfumature nei confini del sole che dà ancora l’arcobaleno nella tempesta che se ne va. Quella misera forma aveva resistito per tanto tempo agli urti al frastuono del mare e dal suo ciglio ammirava quell’orizzonte uguale ma infinitamente sempre diverso, pieno di sorprese.

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Tutto carezzava lo stringersi alla sera prima della notte, il giaciglio preparato con ciò che si poteva avere dava una vaga idea di un qualsiasi letto, morbido forse. Quel letto di pagliuzze scricchiolava a ogni movimento, in parte era confuso dal delicato infrangersi delle onde sulla riva di ciottoli. E nel lento socchiudere degli occhi cullati da quel morbido concedersi della natura, i pensieri scivolavano verso la porta che separa dal buio al sonno quasi mentendo nell’accompagnare le paure prima di addormentarsi. Poi, un tuffo, in quel mare azzurro e ricco di avventure, quanti occhi! Così grandi e fissi, mai visti, tanto vicini e interessati, nel far provare soggezione scivolavano azzardati a brevissima distanza, ritornavano, parevano sorridere nell’acqua colorata da mille colori e luci. Salivo per riprendere aria e appena giunto a galla lo stupore dello scroscio di un temporale, quasi completamente immerso nell’acqua appena occhi e naso fuori sentivo di bagnarmi. Presi aria, tanta e poi mi immersi nuovamente, non volevo più uscire da quella calma, dalla culla di un bimbo nel corpo di un vecchio, era troppo bello sentirsi così voluto e abbracciato in quell’ambiente. Poi il moto ondoso crebbe, la luce in superficie diventò sempre più intensa e l’aria nei polmoni iniziava a mancare. Troppo. Risalendo da quel gioco straordinario sembrava di volare, e mano a mano che si avvicinava la superficie il mio corpo era sempre più sballottato dal mare sino ad uscirne senza forza, cavalcando un’immensa onda spumeggiante che mi fece atterrare a riva forzosamente. Gli occhi pieni di sale nel caldo accecante della spiaggia mi riempivano di sensazioni mai sentite, ero naufrago a casa mia, non mi pareva vero, sentivo e non capivo, comprendevo e non vedevo. Solo salsedine dappertutto, e la pelle che si asciugava pareva un richiamo, forte, tanti piccoli abbracci ovunque, tutto si stringeva in un vestito che avvinghiava intorno a me, uomo nudo di parole. Lo stridere di un gabbiano mi svegliò in quella mattina dove l’alba iniziava a baciare la risacca, quelle lame di colore così caldo, aranciato, l’incanto domino sullo sguardo. Difficile alzarsi per scendere dal proprio sogno ancora vivido, non bastava lo sbadiglio, era come essere fuori dal corpo ancora intorpidito, solo qualche piccolo collegamento con gli occhi e le orecchie. Rinascere, sì, ma forse una nuova formula magica occorreva per far ripartire ogni movimento, impulso, scarica, voglia di fare. Tutto intanto riprendeva colore oltre a quelle lame, odore, forma, movimento, corpo, linguaggio, l’intorno svegliava l’intorno, voci, richiami chi più forte chi meno, ogni cosa, ogni essere sollecitava, sentiva il bisogno di svegliare gli altri oltre che di sentirsi svegliato. Dagli altri. Pareva un gioco senza regole talmente caotico, ma intanto la regola c’era, ed era imperativa, svegliare svegliandosi. Uccelli in voli acrobatici, foglie sbattenti nelle folate, alcune sospese, foglie secche che si rotolavano, urla di gabbiani, fischi, schiuma sulle rive, scricchiolare dei rami, frinire, erba secca che sfrigolava spettinata e piegata dall’aria. Un meraviglioso marasma nella mattina che ha l’oro in bocca, della mattina che si rivolge a te con un dolcissimo bacio, tenero, delicato sino a farti sognare da sveglio.

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Era ora, presi a camminare sulla spiaggia quasi zigzagando, tra l’acqua e la sabbia più asciutta, e in quel piatto di baia deserta pur nel silenzio per gli uomini c’era un’incredibile fracasso di vita, pullulava incessante e ricca di ogni cosa dal sasso alla farfalla. Tutto quell’immoto si librava in un forsennato movimento, tutto in festa, tutto. Riuscivo finalmente a scorgere qualcosa dell’universo intorno a me, agognato per anni ora era lì, ad un passo da me, studi infiniti non mi avevano dato la chiave tanto bramata per leggere quel libro della natura. E la vecchiaia che avanzava mi toglieva ogni giorno di più il respiro, la speranza di riuscirvi. Ora invece era tutto a portata di mano, il tatto funzionava finalmente. Sentivo, vedevo, percepivo e odoravo come non mai quel luogo, e ogni suo componente, quei colori mai visti, quei suoni mai uditi, quei profumi mai sentiti. Perché non ci ero mai riuscito, perché tutti questi anni passati in silenzio, senza nessuno a cui poter cantare questa infinita musica ora, perché solo nelle folle, nella follia di un popolo incauto con la natura perché la teme e nel temerla terrorizzato la fugge. Perché tanto ignorare la stringente melodia della vita insieme, quel dono infinito della stessa, che solo poco prima di volare via per sempre forse sfioriamo. Alcuni pesciolini impauriti dalla mia ombra mi osservavano nei pochi centimetri d’acqua, mi osservavano seguendomi, curiosi, voltandomi li salutai, allungai il passo per vedere se mi seguivano, e cercando di controllarli voltandomi non vidi una radice sulla spiaggia. Un attimo, inciampai sbucciandomi il dorso del piede, caddi sulla spiaggia, stupito, dell’inatteso finale spalancai la bocca e la schiuma dell’infrangersi dell’onda me la riempì.

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Sputai. Tossii. Gli occhi lacrimavano e un po’ di mare rosso del mio sangue che colava dal piede mi passò vicino. Mi venne da ridere, non mi ero fatto un granché di danni, ma perché tutto intorno suonava impazzito, ero preoccupato per la preoccupazione del resto del mondo. Rimasi lì seduto mentre l’acqua sciacquava la ferita prendendosi quel sangue che sempre più lento usciva dall’angoscia, chissà dove mai sarebbe finito, chi lo avrebbe sentito, in quale gusto, cosa mai si sarebbe potuto decifrare. Intanto la radice ignara dell’accaduto, immobile, procedeva nella sua vita giornaliera, raccogliendo e trasportando quegli elementi così importanti per l’esistenza della sua pianta, quel piccolo albero abbarbicato in un posto così angusto, difficile a viversi per la realtà di un vegetale. L’accarezzai, chissà, quasi per volerla scusare, ma lei non ne aveva nessuna colpa, non era lì per fare inciampare alcuno, era lì per vivere e far vivere. E i pesciolini erano arrivati e continuavano ad osservarmi. Quasi imbarazzato dai miei gesti continuavo ad accarezzare le rugosità della radice, fissando il cielo. Poi la strinsi con la mano, era la radice del mio sguardo, il flusso vitale che lentamente mi inondava di poesia, emozioni di ogni tipo. Non riuscivo più a staccarmi, ora nell’essermi ritrovato nella natura percepivo altro, ancora più forte e intenso di quanto non fosse poco prima, e di nuovo il pensiero viaggiava, come in un spazio elastico, si allungava e ritraeva, permeandomi di visioni particolari. Il giorno del mio battesimo, il volto dei miei genitori, le mani sporche di marmellata nascoste tra i banchi di scuola, la chiesa piena dei grandi, quelle gambe troppo alte e la mamma che mi chiamava. Ricordi così lontani eppure lì, vicini e tangibili, nel sole sulla spiaggia, con i pesciolini che giocavano tra loro. Quella radice era lì, con sopra la mia mano e nel tepore del giorno lieve sussurrava una nenia nei miei ricordi.


L’aria che viene nel tuo viso è ciò che lava ogni istante,
porge accarezzandoti voci lontane,
alcune sono anche per te,
fermati,
per aprirti e lasciarle entrare nel tuo mondo.



Testo e fotografie di Luigi Delloste

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