Vercelli risaie

Pubblicato da Giant Trees Foundation il 7 Aprile 2020
Articolo

di Luigi Delloste

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...è sera, lontano un volo di aironi fiancheggia il corso del Po e il gracidare delle rane permea quello straordinario paesaggio, umido, fosco, delle risaie del basso Monferrato.
Il sole riflesso nell’acqua rende morbidi e metallici i suoni dei colori delle piccole onde, paiono danze di stelle in un concerto serafico.
Inizia a farsi sentire la calura afosa dell’estate, che, ormai approssimatasi, non finge più ed avanza irruenta sulle nostre fronti.
Con la bici concludo gli ultimi chilometri che mi separano da casa, nessuno mi aspetta, anche stasera un pezzo di pane e la verdura del mio orto come desco, anche stasera il piatto solo, da pulire nel lavabo di pietra dove l’acqua, morbida, dà ancora i suoi segnali atavici di speranza.

Che strano, avvicinandomi al portone che chiude il cortile, sento uno strano effluvio di fritto, pare accompagni il sapore di un minestrone di verdure ormai cotto a dovere e il vociare di alcune persone irrompe in quel silenzio immoto di sempre di quel luogo.
Si gareggia con il cinguettio dei passeri.
Mi avvicino sempre più preso dallo stupore, convinto di assistere ad una mia imprendibile allucinazione e, prima di avere il coraggio di toccare la chiave, appoggio i miei sensi al legno di casa.
C’è odore di festa, preparativi, come quando si attende qualcuno di importante per festeggiare, musica, eccitazione e schiamazzi, ma, nonostante la casa sia mia, non odo alcuna voce conosciuta, e, nelle parole, non scorgo in nessun caso pronunciare il mio nome. 

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La stanchezza del duro lavoro nei campi della giornata mi induce a pensare a un errore, forse qualcuno ha sbagliato corte, o forse è uno scherzo, grossolano e volgare, diretto a chi, inerme e solitario non può di certo ricambiare, nel bene e nel male.
Eppure, no, pare di udire serenità e gaiezza nei dialoghi, tutti sono in eguale misura animati di una meravigliosa voglia di fare, un po’ di fretta certo, si sente, ma tutto comunque è proporzionato al momento e, nell'aria, il suono delle parole adula l’effervescenza di tutti i presenti.
Mi chiedo di tutto, inizio ad avere dubbi su quel giorno e, nell'esitazione, giro spaventato la bici e torno indietro.
Pedalando di fretta sento il fiato sul collo dei pensieri che, urlando, mi travolgono e, dentro me, lo stomaco si stringe sulla paura di scappare.
Ma è il mio paese!
Sono nato qui, me lo ricordo bene, il 26 ottobre del 1859; quel giorno infatti se lo ricordavano tutti, un temporale fuori stagione e il vagito di un nuovo componente della grande famiglia, che onore!
Che bello! Che posto meraviglioso per arrivare sulla terra! Che anno straordinario per nascere!
Che famiglia stupenda nella quale crescere.
Quelle risaie..., le corse sui bordi dei fossati coi piedi sporchi di fango e le sanguisughe incollate ai polpacci.
Caldo, afa, e cicale invisibili, libellule grandi come pipistrelli e zanzare, tante, da poter in uno sbadiglio vivere.
Senza cantine e con l’acqua sempre ai piedi.
Poi, con il passare degli anni i gambali, la bici, le prime fugaci occhiate alle altre, i giochi al pallone nel cortile della chiesa, all’oratorio.
E la sera con i coscritti a raccontare in una gara le proprie fantasie.

Tutto, sempre con l’immancabile scadere dei giorni dopo i giorni, con quella così ovvia sequenza del tempo, che deve passare in salute s’intende. 

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La bici ora è appoggiata al parapetto della bealera, e il sole ormai verso il tramonto, tinge d’aranciato ogni cosa, scalda, prima della notte, ciò che si vede ancora.
Il borgo è spento e, lontano, si odono luci di festa, provengono proprio dal casolare, dalla mia casa, accidenti!
Cosa faccio? Stringo con forza il manubrio e frenando una corsa non ancora iniziata mi raccolgo, i nervi tesi all’unisono, pronti a partire per andare a vedere, per capire cosa accade.
Per rispondere alle domande, ai dubbi, per chiarire l’accaduto.
Perché lì proprio in quel cortile, perché a me e non da altri, ora che non c’è più nessuno in giro? Ora che le luci del giorno lasciano il testimone a quelle dei lampioni, che sono ancora timide e deboli, in uno spettacolo serale di sfumature e fiammate rassicuranti, calde. 
Ritornando sui miei passi, scorgo poco lontano uno spigolo che non conosco, che non ho mai visto prima d’ora, i mattoni hanno uno strano colore e la calcina che li unisce è bianca come un lenzuolo passato nella cenere.

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Mi avvicino con cautela, come quando si teme un’esplosione di qualche cosa, anche solo lo scherzo da bambini dietro l’angolo e vedo la foggia, la fattura di quei mattoni, innaturale, paiono arrivati da chissà dove.
Cosi perfetti e precisi, li tocco e li sento durissimi, come il vetro?
Ma sono mattoni! Non convinto raccolgo un sasso sul selciato e, anche qui...lo vedo nero!
Non ho mai visto una strada di quel colore, così liscia e priva di asperità.
Confuso, stringo il sasso e colpisco violentemente quel muro di mattoni precisi, nella sollecitudine inconsapevole, di chi, ignaro della consistenza della novità, arde dal desiderio di sapere, nel giro di poco, nella fretta dell’ansia.
Scheggiandosi in parte, scoprono una pasta interna ancora più dura delle mie previsioni.
Guardo e rigiro tra le mani quelle schegge e, in un istante mi ritrovo davanti una donna giovane, spaventata, in un vestito con colori e tessuti incredibili, che urla frasi sconnesse additandomi ed indietreggiando, mi volta in tutta fretta le spalle, la vedo correre in casa sprangando il portoncino.

Dei suoni innaturali seguono quel caos, e tutto mi dice che è meglio defilarsi da quel luogo.

Mi viene in mente che solo l’altro ieri io e il Paolo ci siamo attardati a parlare del riso e della stagione in ritardo di quest’anno, conseguenza della prolungata siccità dello scorso autunno. 

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Non trovo la bici e correndo nuovamente verso la piazza della Chiesa inciampo in un curioso odore, acre, forte, di desco.
I miei polmoni mi reggono sino alle panchine del piazzale, è la prima volta che mi manca il fiato sino a questo punto e sentendomi quasi mancare crollo pesantemente su di una, la testa mi gira, gli occhi scendono sulla mia sinistra e scorgono una fontana che versa acqua in un piccolo catino; è fresca, limpida, la bevo.
Non avevo ancora visto fontane in questo paese dimenticato, eppure l’acqua dalle nostre parti non è mai mancata, eppure la vernice di colore verde è consumata nei punti ove ci si appoggia per bere.
Occorre fare il punto della situazione, mi risiedo alla veloce sulla stessa panchina e cerco di rilassarmi, osservando la facciata della chiesa poco distante e scorgo la vernice incrostata, l’intonaco che a tratti cade in pezzi e il portone che ormai non si riesce più a chiudere.
Le tende che riparano dalla luce esterna paiono a drappi, lacere e svolazzanti, manca l’aria per muoverle.
E lì vicino una aiuola colma di fiori bellissimi che fino a ieri non avevo visto, mi incanta; è angosciante, alcuni tratti di questo paesaggio sembrano stridere tra i tempi che cavalcano.
Si mescolano ansie e serenità di momenti distanti tra loro nel medesimo luogo, catapultato in oasi lontane di fugaci conclusioni.
La terra brulicante di arie balzane, si mescola in diavoli di polvere alti quanto un piano, che dissolvendosi, lasciano il posto ad imprevedibili scenari raffiguranti epoche diverse.
Dello stesso luogo. 

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Le mie mani, stringendosi tra loro come due superstiti, chiudono il cerchio della ragione che lentamente scivola via dal razionale e il nuovo spazio che viene a crearsi sugge energia dal lento decadimento della mente.
Cosa ho fatto!
Cos’è questo incubo apocalittico che mi chiede sforzi sovrumani di comprensione ai quali io non riesco a far fronte?
Dove sono?
Odo la pelle raggrinzirsi e le articolazioni serrarsi in un movimento sempre meno elastico e più difficoltoso, gli occhi sentono urla raffinate cadere lungo la schiena.
E poi, tutto rimpicciolisce e all'istante il mio corpo è morbido, incredibilmente fresco, privo di peli e, in uno sbadiglio mi scopro senza denti con la testa enorme e pesante, difficile da tenere in aria.
Mia madre mi solleva con amore e mi bacia, ecco l’ateneo che tanto bramavo.
Ma non sono i giorni di scuola sul finire..., questo è il caldo serale all'imbrunire.


I rintocchi del campanile mi svegliano di soprassalto, mi rendo conto che poco rimane della sera, la cena è finita e la gente, ora, esce in strada per godersi un po’ il fresco del crepuscolo, per parlare della giornata, per sentire qualcosa di nuovo sui fatti lontani e per potersi meravigliare di nuovo.

Un bimbo mi corre incontro sorridendomi, è il mio riflesso madido di aspettative, imperlato di fantasie,

sono io che mi osservo allo specchio


Testo e fotografie di Luigi Delloste