
Verde appeso
di Luigi Delloste
Un po’ di aria, finalmente. Leggera, a tratti frizzante nella sua cristallina e pungente carezza, lambiva il collo sudato dopo quella mattinata faticosa a tirar giù alberi per farne legna, quella da ardere. Si avvicinava l’ora del desino e i nostri stomaci reclamavano solo più una cosa, imboccare l’avvio del pieno di energia in un momento di sosta.

Altro già si era frettolosamente consumato, liquidi per compensare la disidratazione dovuta al tanto sudare per quel lavoro così stancante. Direi proprio qui su questi pendii, dove se anche si era in autunno inoltrato e non proprio in fondo valle il gran movimento e gli sforzi avevano scaldato parecchio così da farci grondare abbondantemente. L’ora scoccata intravvedeva il masso largo e chiaro, quasi piatto, senza macchie di resina che pareva attendere il nostro arrivo. Con raffinata maestria avevamo evitato in tutti i modi di far cadere qualsiasi ramo o albero su di esso in modo da non sporcarlo. Sarebbe stato la nostra tavola. Nonostante fossimo sudici e pieni di resine, terra e fango l’idea di poter mangiare su una larga “tavola” pulita in quei momenti suscita piacevolezza, ci faceva insomma un gran piacere.
Un lembo di tela dall’opaca parvenza di tovaglia e via, a sistemare sopra quel tessuto i cibi preparati la sera prima per l’occasione. Le campane lontane rintoccavano l’avviarsi alla sosta ristoratrice, suoni nel tempo, da tempo segnali del luogo per lo staglio del tempo scoccato. Il sole accecante giocava sulle ombre di quei barattoli e involucri, proponendoli come soldatini ignari della successiva consumazione nella conclusione della battaglia. Da una rapida occhiata parevano sin oltre le necessità, in fondo eravamo poi soltanto in due. Però si sa, in questi momenti si manifesta in abbondanza, in un riverente non si sa mai, perché: se poi ritorna la fame… Il fiasco pieno di un rosso brillante, scurito dal verde del vetro vacillava e svuotandosi dal primo recipiente colmava con frequenza nei boccali, entrambi in legno tornito, un bere cordialmente tannico, rinvigorente per le sfacchinate appena concluse. In realtà restava ancora molto da fare, ma nel lavoro del pomeriggio si trattava perlopiù di mettere in ordine e separare le cataste di rami più o meno intrecciate nella caduta. Si trattava di ripulire i percorsi intasati dai rami, riorganizzando non solo la piccola viabilità ma anche gli accessi più grandi, indispensabili in un secondo tempo per portare via il legname in modo meno caotico e soprattutto meno ostacolato possibile. Grossi pesi non ce ne sarebbero più stati molti da spostare. O almeno così pensavamo. La bocca piena di qualche selvatica barzelletta, rozza si, ma elegantemente recitata tra sbuffi di stomaco e appena abbozzati gorgoglii vocali, rendeva quel momento il miglior banchetto nel miglior locale con la migliore compagnia. Sulla pelle scaldata dal sole in quella pregiata dose alcolica che sistemava arrotondando il contorno. E ora non si urlava più, il precedente baccano dei motori era spento. Sul finire di quel attardato momento ancora mescemmo un goccio di un ormai tiepido caffè mescolandolo nel boccale tra tinta di vino e grappa zuccherata, così, per concludere in bellezza. Restava poco, in quella mezza giornata tra i versi della poiana e il gracidare dei corvi. E nel sorseggiare l’ultimo liquido, ormai paghi dell’acquisito, ci lasciammo dolcemente appisolare, in quelle conclusive flebili battute, sul masso imbandito a mensa. Sul masso bianco ancora pulito dalla segatura e dalle sfibrate dei rami. Qualche formica rufa in avanscoperta raccoglieva misere briciole di pane, seguita nel giro di poco da altri esploratori e quindi da nutrite schiere di aiutanti in campo, nulla poteva essere lasciato al caso, tutto veniva verificato e se possibile recuperato. Qualcuna saliva lungo i vestiti, nell’intento di cercare meglio altri residui, chissà ricchi di sostanza, energia. Gli scarponi sporchi slacciati, dai quali usciva un’aria che se mai fosse stata inalata da altri poteva provocare allucinazioni. Una combinazione tra formaggi dimenticati e aceto stantio in quel ribollire di batteri con tanto di pedigree. Era slacciata anche la cinghia dei pantaloni, meglio adattata a far posto ai lievitati stomaci. La camicia ben chiusa al collo da non lasciar passare l’aria fredda, perché ora nel pieno della digestione la temperatura si sentiva diversamente bene.

La blusa a incappottare il torace e il cappello ormai liso e salato, con quella piccola nappina, a coprire il volto dal sole tiepido per l’aria fresca ma scottante sulla pelle chiara. Qualche minuto e il silenzio era tra noi, lievi sibili, a tratti intermittenti, delle chiome intorno, ogni tanto un colpo secco della pigna che si schianta a terra, su un masso. Il profumo dell’aglio selvatico correva alzandosi e abbassandosi danzando come quando si apre la tovaglia nel preparare il tavolo, rapiva saturo le narici e nello stesso tempo scompariva da birbante e acre quale era. Quasi fosse pronto a indispettire gli ignari spettatori il cui corpo ronfante aveva solo più le mucose nasali sveglie. Rapido e ondulato lasciava il posto alla tenuità degli aromi locali, per poi riprendere il possesso alla folata successiva. Una grossa e buia nube oscurò d’un tratto il cielo e la temperatura che variò improvvisamente ci svegliò dal torpore. Forse il chilo era fatto. Un po’ sbuffando e un po’ stirandosi si recuperarono asce e roncole per riprendere la fase pomeridiana del lavoro. Questo era iniziato il lunedì dopo mesi di altre attività consone al periodo dell’anno, tra la fienagione e il portare armenti dagli alpeggi alle stalle in fondo valle. Era il tempo di fare legna, di quella che si usa per riscaldare la propria casa, per cucinare e magari, per i pezzi migliori, da tenere per opera, dalla paleria alle assi, alle suppellettili, quelle cose utili a fare altro. Le lame molate il giorno prima usate con precisione incidevano quelle parti immacolate del legno, secco o ancora verde che fosse, penetravano in un sol colpo a fondo separando setti, portando alla luce del giorno quei tessuti ignari del lume, fatti per crescere lentamente e morire e disgregarsi altrettanto a rilento. In quella, la natura non ha mai avuto fretta. Tagliavamo con colpi secchi interrompendo all’istante processi di decenni, votati alla costituzione e degradazione, e quest’ultima, se noi non fossimo stati lì a saccheggiare, si sarebbe riproposta in un cerchio infinito corrispondente a ben altra ripresa e poi a altro decadimento. Un po’ era come se avessimo slacciato tutti gli orologi del posto, quell’atto drammatico in un anfiteatro dove gli spettatori angosciati sono immobili, loro stessi, sulla coda sacrificale del macchinoso ed elaborato intercedere umano. Noi non confondevamo i colpi secchi dell’ascia, ma quella platea sentiva il vibrare ultimo, percepiva che i nostri movimenti precorrevano il tempo in una folle e smisurata velocità. Tutto il toccato cedeva al progetto primario, senza scendere ad alcun compromesso (un temporale o una nevicata), interrompendo drasticamente ogni tempistica. Una sorta di accelerazione devastante dei meccanismi così finemente elaborati e impostati in millenni dall'ambiente. Ci pensavo, anzi, credo di averci sempre pensato, quanta forza si identifichi in quei colpi prossima a cambiare in modo infinitamente repentino il lento e misurato scorrere delle cose. Accidenti, ma prima di noi com’era? Nessun taglio, solo strappi, qualche schianto, picchi nella ricerca di insetti nel legno colpito dai funghi, neve copiosa e bagnata che spezza i rami più estrosi, chissà troppo irruenti nel crescere. Vento, a strappi, a folate veloci, a intermittenza a colpi. Fulmini, rari e impietosi nell’innescare incendi, a volte estesi, dopo i quali come araba fenice il trionfo della natura rinnovata s’impossessava del territorio.

Frane, smottamenti che accompagnavano forzatamente queste masse di terra piene di vegetazione incredula al manifestarsi di tale forza dirompente, dove il destino, in precedenza, non si era delineato in alcun modo per chissà quanto tempo, ora così cruento. Eppure l’albero cresce anche in queste incognite così forte della sua razionale incoscienza, un ossimoro costruttivo, la massa che cresce a dispetto delle leggi della fisica (quelle umane) ma con obbiettivi ben superiori alla nostre convinzioni. Le valanghe, le slavine impietose che nel crescere della temperatura trascinano ogni cosa in quest’abbondanza di neve stanca di reggersi. Una rapida occhiata alle pendici permetteva senza difficoltà di comprendere con estrema facilità le stragi di alberi, alberelli, cespugli, perpetrate nei mesi invernali sul principio della primavera. Dalla infinita gentilezza del singolo fiocco all’incredibile forza della massa collassante di una slavina, dove tutto in quella contingenza è spettatore inerme in attesa del proprio momento. Ma se dal capovolgimento dello stato ordinario delle cose si guarda al futuro delle stesse successive all’evento, si può dedurre quanto ancora si possa mettere in discussione per riprendere, continuare, ricostruire poco più in basso, in altri disegni, quanto prima poco più in alto si era realizzato. E dopo questi devastanti eventi compare l’acqua. È sì fonte di vita, ma in dosi moderate, mentre quando il cielo sbotta iroso carico di nubi dense di quelle minuscole goccioline che teneramente definiamo pioggia, il romantico si liquefa davanti al tragico. Tutto si versa frettolosamente, troppo e allora ancora molte cose nel precipitare si trasformano, i rivi si gonfiano a dismisura rotolando massi della qual misura nessuno avrebbe mai scommesso movimento. Nulla è così immobile come lo si vede. In quella raramente l’uomo si fa una ragione degli accadimenti, delle catastrofi, si cerca sempre di pensare alla disgrazia, al fato severo degli dei. Trattenendo con la gamba una parte del ramo che stavo per pulire, ad un tratto, sentii come una vibrazione provenire dallo stesso, non poteva indicare nulla, né ero in grado di interpretarla, la comprensione del linguaggio degli alberi per noi umani era ormai persa da tempo, rimasta forse in quell’officina dell’infanzia ancora relegata all’istintuale. Ma era una vibrazione. Pensavo di essermi suggestionato oltre misura dai pensieri precedenti e quindi di aver percepito la stessa come un segnale, giunto da chi e per cosa?
Noi umani non possiamo dialogare con gli alberi anche se forse loro in qualche modo lo fanno con noi. Ma “tradurre” ciò era del tutto impensabile, scioccamente immaginato in un momento di particolare apertura alla sensibilità. Non ero io ad aver provocato quella vibrazione, o forse, non me ne ero semplicemente accorto. Quel ramo ormai privato dalle biforcazioni era già accatastato e quindi non era il caso di continuare oltre a fantasticare. Ma ognitanto guardavo in quella catasta e scorgendolo mi rincuoravo. Non avevo più gettato altri rami sopra, così per non occludere del tutto la vista dello stesso. Qualcosa di lui mi era entrato nella mente. Era una reminiscenza del bastone che il genitore ci porge nelle prime gite da bimbi, quel bastone che ci sorregge, ci protegge ci aiuta, è al nostro fianco come se fosse una sorta di rudimentale piccozza. Ma cosa penso, qui di bastoni ce ne sono a migliaia, uno vale l’altro, si, forse qualcuno più bello e altri miseri, ma la scelta è quasi infinita. Appunto, uno vale l’altro. Niente, il pensiero di averlo lasciato in quella catasta mi accompagnò sino al termine dei lavori, cosicché appena recuperati gli attrezzi e caricato il carico degli armamentari sul mulo a quattro ruote, ritornai sui passi di quel bastone e lo presi per portarlo a casa. Era ancora grezzo, non lavorato, strappato dalla sua genesi, spaventato, aveva parvenza di angoscia, riluttanza nell’intraprendere involontario il viaggio che lo attendeva, paura atavica nell’abbandono del suo luogo, dei suoi avi, dei suoi amici, conoscenti. Dell’odore di quella valletta, anfiteatro, dove per tanti anni vissuti insieme, nel bello e cattivo tempo, ci si era conosciuti tra gioie e tristezze. Una lacrima di resina colava lungo la ferita, a testimonianza della vitalità che lenta abbandonava quel corpo che nello sbattere con altri corpi per il viaggio, su quella sgarbata traccia interpoderale che collegava la valle ai pendii più elevati, sfregava lembi e frastagli di corteccia. A fiocchi cadevano sul pianale. Perdere la pelle quando la pelle è ormai persa. Nessun rumore dei trasportati, il motore e i sobbalzi coprivano i lamenti sordi in quella tradotta. Eppure sbattendo e cadendo gli uni sugli altri qualcosa accadeva, gli abbracci accidentali mietevano sensazioni che in altri momenti, lo sfregare dei rami nel vento, avrebbero suscitato per altra suggestione. Ora no, nel chiedersi a quale futuro si sarebbe mai giunti, solo l’ansia aleggiava su quei ritagli di legno, nessuna certezza poteva, pur timidamente, apparire. Nessuno di loro aveva mai visto o sfiorato il fuoco, l’unico assaggio di differente realtà era stata la lama della roncola. Un piccolo scoglio sul percorso fece sobbalzare il veicolo, sì che alcuni saltarono fuori alla rinfusa, cadendo nella scarpata. Sembrava giunta la libertà, un po’ una fuga da un destino iniziato come crudele e sanguinario. Invece ci fu una breve sosta per raccogliere il perduto, riportare nel cassone quanto poco prima in parte saltato fuori. Ma nella fretta quel ramo così importante nel fascino del mistero che lo avvolgeva rimase a terra. Ripartimmo nella mira di guidare in modo più accorto, come del resto sempre si fa, ormai i fumi dell’alcol si erano dissipati. Nel sistemare alcuni attrezzi in rimessa, non più utili per il lavoro del giorno dopo, mi accorsi che tra tutti i rami, paletti, aste e legni vari mancava quello più importante: il bastone che volevo tenere. Rivisitai di nuovo il tutto, niente, chissà dove mai era finito. Tra cena e serata in compagnia mi passò di mente la cosa, ma nel dormiveglia incerto del sonno ritornò a galla, così dal prendermi il riposo legittimo sino a svegliarmi del tutto. Dove avrebbe potuto essere? Lo rivolevo a tutti i costi, ma cercarlo in piena notte sarebbe stata pura follia, non tanto per dovermi giustificare davanti a chi mai mi avrebbe visto nell’intento, ma per la mancanza di luce tale da inficiare del tutto le ricerche. Rigirandomi nel letto provai a riaddormentarmi ma quel pensiero troppo pungente non mi permise di staccare sino alla mattina. Appena alzati e proiettati in una veloce colazione, troppo veloce nell’essere consumata, bruciammo una partenza affannosa per raggiungere il luogo del sobbalzo, quale ipotetica zona di ritrovamento. Scesi prima, del resto poco rimaneva da percorrere a piedi per raggiungere la valletta dei lavori, e iniziai a cercare. Non ricordavo più con precisione il punto del sobbalzo anche perché il percorso era svolto a ritroso e i punti di riferimento li avevo archiviati durante la discesa e non nella salita. Se fossi sceso invece di salire tutto sarebbe stato più facile. E in quella mi parve di scorgere l’attenzione dei “testimoni” nei miei confronti, volti, espressioni mai viste, ammiccamenti, folate di aliti che scivolavano sulle spalle e sul collo, richiami monchi e sussurri a mezze parole. Tutto era vivo e vivace come mai l’avevo notato, quel mondo immobile se non per l’aria sulle fronde ora era animato in una confusione di chiacchierii caotici, intrecci di discorsi e consigli su come ritrovare ciò che cercavo. Tutto mi volgeva addosso, o almeno credevo fosse così. Mi pareva di essere pazzo o quantomeno di impazzire, questo momento non poteva certo essere reale, ma poi per un bastone! Sì, per un bastone. Chissà magari mi aspettava, lanciando richiami impietosi, altre insolite vibrazioni… un bastone che aspetta di essere trovato! Follia pura! E tutto ciò si mescolava con il resto del caos determinato appunto dal mio passare, cercare affannosamente. Avrei voluto spegnere l’interruttore, ma non sapevo dov’era, e il cervello si saturava sempre più sino a dolorare in un modo mai percepito. I movimenti rallentavano, la visione si opacizzava e il “mal di testa” diventava sempre più insopportabile. Stavo per cedere, ma non ero per nulla convinto che cedendo tutto si sarebbe concluso, anzi terrorizzato da questo dubbio procedevo ugualmente un po’ come una barca in una tempesta nel tentativo di raggiungere un porto sicuro. Una barca senza remi in un bosco in tempesta. Ad un certo punto dalla parete a monte si staccò un sasso, che cadde rotolando verso di me, lo evitai all’ultimo istante e nel girarmi per vedere dove poteva finire la sua corsa scivolai cadendo rovinosamente per terra, toccai in modo troppo repentino con la nuca un masso e svenni, chissà per quanto tempo. La voce del mio collega di lavoro che chiacchierava al telefono mi svegliò, ero seduto al bordo strada, non vedendomi arrivare per troppo tempo era venuto a cercarmi trovandomi disteso proprio sulla strada. Mi spiegò il tutto aggiungendo dettagli, stringevo con molta forza un bastone. Parlava e nel rincuorarmi sentivo solo più la sua voce, nient’altro, tutto il vociare di prima era svanito, semplicemente dissipato , dissolto. La percezione di essere nel vuoto cosmico, vide questa mia esitazione, ma pur chiedendomi come stavo e se sentivo male da qualche parte rispondendo non riuscii a descrivere le sensazioni che provavo sino a poco prima di cadere. Ero convinto non mi avrebbe creduto pensando che il colpo in testa stava giusto dando i suoi frutti. Mi aiutò ad alzarmi e reggendomi sul bastone che avevo tra le mani ripresi a camminare negando almeno per i primi passi il passaggio in auto. Cercavo di capire come stavo. Tutto funzionava e invece di ritornare al paese e magari di passare dall’ambulatorio del medico condotto, ritornammo a lavorare nella valletta, il nostro cantiere. Ripresi a lavorare un po’ in sordina certo, ma comunque tranquillo per non aver subito alcun tipo di danno, né graffi, né contusioni ne ematomi. Il chiodo quando percosso dal martello entra nel legno, sfibra, separa e si fa strada senza la volontà dei colpi in quell’essere compatto, forte. Quella punta che penetra con violenza in un corpo riluttante a accoglierla, non c’è affinità tra ferro e legno, non possono essere parenti, forse neppure conoscenti. Eppure molti componenti che alloggiano nei loro corpi sono appunto in entrambi. E in questa il legno è così risoluto a stringersi nel suo tessuto che con il passare degli anni si serra in una morsa straordinaria, materia tanto robusta da durare nel tempo sino a quando non giunge l’uomo per usarla… In quel bastone c’era un chiodo, pareva forgiato a mano, lì da chissà quanto tempo e per chissà quale ragione. Arrugginito conservava un lieve alone penetrato nel legno circostante sì da rendersi cinto in una sorta di involucro colorato più scuro del resto a conserva di quella “spina”, chissà in quale fianco, che nulla centrava in quel materiale. La sua capocchia sporgeva in parte, una piccolissima frazione di metallo dello stesso colore della corteccia. Era ben nascosta alla prima osservazione, forte della sua sostanza, imprigionata ma infinitamente più dura, immota in quel divenire di crescita esterna, il legno che procede nella vita. Andammo avanti un po’ di più del solito quel giorno, volevamo recuperare quelle ore perse e tutto sommato mi sentivo bene, in grado di lavorare come nella norma. Il pranzo filò via liscio senza pause intorpidite, non bevvi vino, avevo ancora un po’ di timore per quanto mi era accaduto la mattina. Il bastone appoggiato al masso era lì quasi per compagnia, nella sua integrità, permeava fierezza, non era abbattuto, bensì guardiano. Devo dire che pur conservando in me qualsiasi commento sulla cosa, dall’averlo perso ai pensieri notturni e infine al rocambolesco ritrovamento, si stava delineando un’aria di mistero intorno a noi. Roberto sentiva che c’era qualcosa, percepiva la mia riluttanza a parlarne e anche se non maneggiavo troppo quel bastone intravvedeva le mie attenzioni verso esso. La sera rincasando lo misi in cabina, non poteva certo stare nel cassone, per nulla al mondo avrei rischiato di nuovo di perderlo. Entrando in casa lo appoggiai all’uscio, dalla parte interna, quasi defilato, poco visibile ma in posizione pronta per essere impugnato. Era come se la sua presenza di arma, potesse mai servirmi a chissà quale utilizzo. Quella sera, non parlai dell’accaduto della mattina sulla pista, avevo chiesto a Roberto una caritatevole omertà, così da non preoccupare i miei familiari. Considerato che tutto si era risolto fin troppo bene avevo piacere di non farne promozione, un po’, devo dire, anche per non ricordare. Lessi qualche pagina di un vecchio saggio sulla natura del legno trovato per caso nel piccolo scaffale e posto in bella mostra nel corridoio di entrata. Il ripiano pieno di libri a testimonianza di una cultura che non si ha, ma la si “vende” agli ospiti, amici o conoscenti siano. Anche loro sanno che i libri in mostra non rappresentano necessariamente una lettura certa, cultura, ma riveriscono alla loro presenza quell’ossequio formale che lega il possesso di qualcosa alla conoscenza addirittura approfondita dello stesso. Anni prima avevo iniziato a leggerlo, mai concludendolo, ora finalmente avevo trovato il tempo di farlo, lo spazio per riprendere quell’impegno imbrogliato da altri incoscienti e fuorvianti come la televisione accesa in famiglia nel momento utile al dialogo. C’era ancora il segna pagina o meglio segnalibro, giusto nel punto di abbandono della lettura, a stento riuscii a ricostruire per quanto tempo l’avevo lasciato, meravigliato ripresi. Una bella lettura sulle caratteristiche degli alberi in bosco, di come gestire tutte le tecniche di abbattimento, dell’uso delle differenti parti del legname, ottimi consigli di come e dove per conservare cosa. Ma non riuscii a leggere troppe pagine, ritornai all’uscio e presi come me quel compare appoggiato alla parete, lo portai dov’ero prima e ripresi a leggere… Come si può sentire di avere un amico in un altro essere, fatto di altra materia, cresciuto in altro modo. Non ha occhi, né bocca, non parla né sente, non si muove autonomamente, rappresenta tanto, certo, ma neppure si accorge del fumo acre nel fuoco di cataste di suoi simili. O almeno credo. Come si può pensare all’amicizia senza riscontro, come può un bastone farmi amico, o semplicemente io sentire l’amicizia di un bastone. Cosa vuole dire sentire l’amicizia in altro? Poi, spolvero le memorie e sento che grazie a qualcosa io ho salvato capra e cavoli e allora dopo, per riconoscenza, quel qualcosa è diventato amico. Sento, avverto, raccolgo ma non afferro cosa e nonostante tutto ciò mi accoglie in uno stato di piacevolezza, quasi sentore di fiducia. Allora intuisco che si tratta di un aspetto arcaico, dentro di me, dentro a tutti noi e in qualche caso nella vita può affiorare, far aprire la mente, gli occhi, permettere di sentire. Leggevo e ognitanto davo un’occhiata al compare, zitto, fermo, anche lui avvertiva le mie sensazioni, vibrazioni a lui rivolte. Non riuscii più, per diverse notti, a dormire bene, a riposare come in questi periodi si può dopo giornate faticose e ricche di soddisfazioni, piene di appagamenti per il lavoro da formica che si fa, mettere da parte per il potenziale calore per i momenti freddi dell’anno. Accumulare energia per i momenti di bisogna. Era iniziato un periodo singolare, mi sentivo pensato, non nelle usuali modalità, qualcosa si occupava di me, a modo suo, mi percepiva e si aggrappava ai miei pensieri e io, di ritorno, ugualmente badavo a non perderlo dai miei lumi, ragionamenti, visioni. Lo portavo con me quasi ovunque, stava diventando una fisima, ma chi ci vedeva insieme coglieva il fatto nella corrispondenza dell’età, il nostro passava per un rapporto di utilità, il bastone reggeva il mio camminare. Tutto rientrava nella logica umana, e ciò mi rasserenava, non avrei dovuto giustificarmi davanti nessuno, tranne forse me stesso. Dal canto mio, utilizzando quel bastone per così tanto tempo e occasioni, dimostravo la sua utilità che andava ben oltre al fatto che anche solo per poco avrebbe potuto riscaldarmi nel fuoco. Certo, poco nel fuoco, ma così tanto nell’essere compare al quale appoggiarsi. Insomma avevo visto in un’infinita serie di occasioni tantissime persone a servirsi del bastone per camminare con maggiore sicurezza, non avevo però mai badato al rapporto delle stesse con questo arnese. Era semplicemente un fatto del tutto logico, ragionevole, il bastone accompagna l’uomo da sempre. Senz’esserlo per designazione era di fatto un attrezzo, arma, confidente, indicatore, protesi, linea di confine. Ossuta propaggine di gesta interiorizzate e riproposte in antiche mimiche, nel quotidiano manifestare i propri pensieri. Non ne potevo farne più a meno. E nell’estremo rispetto che riponevo allo stesso non riuscii mai a intarsiarlo con qualche incisione, era lui, netto, scevro da qualsiasi tipo di agghindamento. Era così come l’avevo scorso quel giorno nella catasta, quella prima volta che in chissà quale modo mi aveva colpito. Una cosa così povera e nel contempo così straordinariamente importante. Passarono anni, e la parte dedicata all’impugnatura si consumò, la pelle della mia mano anche, ma alla fine si riscostruiva, la sua pelle, la sua sostanza si consumava invece, pur lentamente, ma si consumava. Era un rapporto, che col passare del tempo giungeva a rimodularsi su velocità differenti, il legno si consumava sempre più lentamente e la pelle della mia mano si rigenerava sempre più lentamente. Lui forte e solido, io sempre più delicato e debole, sempre insieme. Inutile annoverare quante infinite volte mi aveva salvato da scivoloni e capitomboli, da cani arrabbiati e mici aggressivi, da autisti distratti e giovanotti impertinenti. Quel tutto d’un pezzo sistemava sempre i momenti di crisi, un pezzo solo, senza aggiunte né intarsi. Nei guizzi della mente galleggiavano pensieri sulla sua integrità, sulla “sua” struttura, effettivamente era composto di tantissime cellule, anche di diversi tipi di tessuto, ma il tutto si era accresciuto in un ordine molto particolare. Ogni sua parte era parte organizzata, complementare, sistemata nel posto giusto e per un preciso compito e tra loro c’era, in vita sicuramente, tutta una serie di collegamenti, tali da permettere comunicazione, passaggi, feedback, aiuti, richiesta di consigli, ricezione dell’ambiente, previsioni meteorologiche e mille altre cose ancora. L’averlo tagliato, separato dal resto del corpo di appartenenza aveva interrotto tutto, bloccato per sempre queste connessioni nel corpo per il corpo, nell’ambiente per l’ambiente. Tra una parte e le altre parti, tutte. Di questo non me ne dolevo, in fondo si trattava di “mors tua vita mea” ma ciò che effettivamente aveva deragliato il mio modo di pensare e anche di vivere su altri binari, era stata quella vibrazione che avevo distintamente percepito quel giorno. Non credo si possa sempre avere occhi aperti su tutto ciò che facciamo nella vita, in ogni momento, sì, certo, ragionevolmente lo dovremmo fare, ma nella razionalità degli automatismi che impostiamo per poter andare avanti rientrano appunto questi momenti. Facciamo ma non siamo perfettamente consapevoli dell’importanza di ciò che facciamo. E non solo per noi ma anche per tutto ciò che ci circonda. Un saluto mancato, un sorriso frettoloso, uno sguardo perplesso, possono innescare, generare conflittualità che nella quasi totalità dei casi tende a rimanere in cassetti della nostra mente ben serrati, difficilmente dischiudibili. E così noi ci portiamo dietro per anni rancori sopiti, non fanno nulla ma esistono, e da piccoli che li conserviamo, possono con il dovuto innesco, esplodere come granate in un mercato a mezzogiorno. Facendo danni spesso irrecuperabili. La mia roncola quel giorno aveva tagliato, separato quel bastone dalle sue origini, in qualche modo aveva concluso la sua crescita nel mondo che l’aveva originato. Questo pezzo di legno da dinamico era stato forzosamente trasformato in statico per concludersi in chissà quale fine. Nel raccoglierlo, senza riconoscerlo appieno, l’avevo proiettato in una dimensione dilatata, gli avevo fatto conoscere il mio piccolo mondo nel suo tacito sorriso consenziente. Per un bel periodo, cioè finché restava con me, non poteva ritornare alla natura, né come cenere né come massa organica, ma la sua infinita pazienza sarebbe comunque stata, prima o poi, appagata. Poiché tutto ritorna. Stiamo in ogni modo in un costruito circolare. Ora, qui nel letto, con lui appoggiato al mio fianco, lo osservo e vedo che ha ancora il sorriso di sempre, un po’ consumato, con quella punta arrotondata dai tanti colpi ricevuti. Anche lui mi percepisce e sente il fantasticare turbinoso nella mia mente nel chiedere perdono a quelle gemme mancate, ancora lì, sotto la corteccia a attendere un mai. Sarebbero spuntati bei germogli e poi rametti pieni di verde.

Di quel verde così in alto
che si libra in quel garbato sfarfallio nella brezza serale, in ogni momento del giorno. Quel verde appeso che ci carezza, trasformando il veduto in un manto che traspare di movimento, di voglia di vita, quei mille e mille occhi che giudicano, senza apporre sentenza, il nostro convulso indugiare a vivere congeniti nella natura.
Testo e fotografie di Luigi Delloste